Passio


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Cielo e mare sono della stessa tonalità grigio alluminio. La linea dell’orizzonte indistinguibile. Lo spazio intorno sembra essere sferico. Con i piedi nell’acqua lascio scorrere gli occhi sulle file di ombrelloni in gran parte deserti. Davanti a me vedo una donna, seduta su un lettino; non indossa il costume ma t-shirt e jeans di un nero profondo. Ha capelli scuri, lunghi e lisci, che stancamente riporta dietro l’orecchio, mentre sull’altro tiene il telefono. Siede protesa in avanti con i gomiti appoggiati alle ginocchia. Sul volto ha un’espressione di dolore sconfinato, gli angoli della bocca rivolti in basso, gli occhi a tratti spalancati, a tratti socchiusi. Di tanto in tanto con un dito devia il corso delle lacrime che scendono. La telefonata è lunga, interminabile. Lei parla di rado e sembrano implorazioni intrise di rassegnazione. I colpi di luce sui capelli sembrano provenire da un’altra epoca.

Il mare tiepido mi accarezza i piedi mentre resto immerso in questa Via Crucis. Senza che nulla lo preannunci, la telefonata termina, priva di una conclusione, come fosse caduta la linea o la batteria avesse ceduto improvvisamente. La donna si alza, compie qualche passo verso il mare, mettendo i piedi uno dopo l’altro come una suora stanca dispone i piatti vuoti in un triste refettorio. Il suo sguardo fluttua come cercando l’introvabile linea dell’orizzonte ma sfugge via all’incrocio con altri sguardi.

Si incammina lungo la riva. Sembra che i suoi piedi incontrino il terreno quasi per caso, in punti qualunque, come le prime gocce di un acquazzone senza vento. Si muove senza energia, come se non solo non avesse una meta, ma come se ogni possibile meta nell’intero mondo fosse scomparsa. Quei piedi. Quei piedi che cadono sul terreno come goccioloni. Come lacrime.