Sono luoghi crepuscolari, soffici, poetici, ma di una poesia semplice e garbata. Il sentimento che vi predomina è una malinconica saggezza: è lì che l’umanità ammette fino in fondo la propria disarmante, materiale limitatezza. Ciascuno mostra senza infingimenti la materia di cui è intrisa la sua vita.
Già appena entrati si coglie l’ossimoro olfattivo che preannuncia la verità: dovrebbe essere un luogo di effluvi e aromi ineffabili, ma subito un delicato odore di cadaverina sposta il barometro del nostro umore verso una tristezza che vaga senza patria, un senso di delusione preventiva che ci promette, in cambio, la gelatinosa sopravvivenza delle nostre abitudini.
C’è sempre musica, una musica accorata, accuratamente scelta per rassicurare e lenire, un guanciale sonoro che accoglie i nostri corpi e li culla, li accarezza, li riscalda. In questi luoghi ogni cosa appare più bella di come sia realmente, ma tutti benevolmente accettiamo queste innocenti lusinghe. Ogni cosa indossa il vestito della festa e si fa accompagnare da dolci parole, protegge, tonifica, stimola, lenisce, regola, soddisfa, e certo, alla fine ci porta al piacere. Ogni stagione del giorno trova qui il suo spazio, il mattino, la sera, il caldo, il freddo, la tavola e il sonno, l’intimità e gli umori del corpo. Eppure qui la luce è costante in ogni momento, non cala e non cresce.
Vaghiamo per lunghi dormitori e risvegliamo dal sonno fatato le confezioni di abbracci, di coccole, di piccole voglie, corichiamo bottiglie per non svegliarle, abbiamo cura di ciò che è fragile, bagnato e tenero. Riserviamo un pensiero a chi è rimasto a casa, già vediamo il sorriso che avrà per il nostro ritorno, se avremo qualcosa per lui, per lei.
Per tutti arriva il momento: la fila alle casse. Siamo gente in un supermarket di periferia. Guardiamo i carrelli gli uni degli altri, nudi. Ognuno risparmia su qualche prodotto, vediamo i tristi biscotti nei grandi sacchetti, la carne pigiata in vaschette traslucide, il vino ordinario, il pane affettato. Non ci sono segreti. Quando è il nostro turno stendiamo la spesa sul nastro come i peccati davanti al confessore, ma niente avemarie, qui si paga con carta o contanti. Portando i carrelli all’uscita ogni corpo rivela una certa stanchezza, e non è la spesa che pesa, ma questa nostra vita in mezzo alle merci.