In un parco cittadino noto una donna di costituzione piccola ed esile che porta al guinzaglio un grosso cane, certamente molto più pesante di lei. Quel suo pervicace sforzo nel condurlo. Gli parla con calore, come si parla a una ragione di vita.
Mentre la guardo allontanarsi con la sua fatica riconosco qualcosa di mio, di nostro: una umanità pervicacemente dedita ad accudire qualcosa con alacre impegno. Non vedo più una città, ma un immenso presepe vivente, e noi, figure di mestieri infiniti, ciascuna nel suo darsi da fare, attaccate come edera al gesto stesso dell’accudire, non importa se animali, persone, cose, mestieri, sport o arti. Ci tiene vivi, anche se dovesse servire solo a questo.
Al centro del presepe c’è attesa, ma non del Bambino: è l’attesa della fine della nostra illusione di civiltà.